I revisionisti, gli inaffidabili e la nuova Jacquerie
di Eugenio Orso
Voglio presentare un’ultima analisi prima dell’epilogo della vicenda elettorale, che è ormai imminente. Per tale motivo mi sono dato da fare, i giorni precedenti, e ho scritto il saggio popolare che oggi presento. Tre sono le “famiglie” politiche in lista: i revisionisti, gli inaffidabili interni al sistema e quella che ho deciso di chiamare – per distinguerla dalla vera Rivoluzione – la nuova Jacquerie movimentista, sulla quale do un giudizio prudentemente positivo. Nel pdf c’è la versione estesa del saggio, a disposizione di chi vorrà scaricare e stampare. Spero che il mio particolare punto di vista, a riguardo del panorama elettorale italiano di oggi, susciterà il vostro interesse e la vostra critica costruttiva. Se non altro, sarà un buona occasione per riflettere prima del voto, o dell’astensione dal voto.
Buona lettura
Eugenio OrsoVersione estesa pdf: I revisionisti, gli inaffidabili e la nuova Jacquerie_Eugenio Orso_15 2 2013.pdf
Breve premessa La questione da anteporre a tutte le altre, nell’Italia di oggi, chiamata al voto come se fosse una gentile concessione dei poteri esterni, è proprio l’alternativa, chiara e netta, fra un revisionismo che non cambia i connotati essenziali del sistema, ma lo preserva, e non salva i posti di lavoro, il reddito popolare, l’industria, l’inefficiente ma irrinunciabile stato sociale, e la Rivoluzione, quel re-volvere che implica un cambiamento profondo, superando lo status quo e imponendo un nuovo modello politico e di organizzazione sociale. Il revisionismo comporta un falso cambiamento, soltanto parziale e insufficiente o addirittura illusorio, mentre la Rivoluzione, ben lungi dal rappresentare un semplice cambio di governo, comporta la ridefinizione integrale dei meccanismi del potere e l’affermazione di un nuovo rapporto sociale. Ma la Rivoluzione difficilmente si fa in modo pacifico, con le elezioni liberaldemocratiche. In Grecia, la presenza di syriza in parlamento non ha spostato i termini della questione, la situazione sta precipitando, il governo collaborazionista prospera e i greci stanno soccombendo alla troika. Sì, perché l’esigenza fortissima che oggi sentiamo, e che niente e nessuno all’interno del sistema vigente può soddisfare, è quella di un nuovo rapporto sociale che consenta il superamento del neocapitalismo e della dominazione finanziaria. Solo così si potrà salvare una prospettiva futura decente di convivenza civile, per noi e soprattutto per le generazioni a venire. Solo così si potranno riattivare in forma nuova i meccanismi di solidarietà comunitaria e di classe. Solo per questa via si scardineranno le porte del nuovo Palazzo d’Inverno per condividere con le masse la decisione politico-strategica. Ma nell’Italia di oggi, chiamata al voto politico, ci sono i revisionisti, gli inaffidabili interni al sistema e la novità assoluta di una moderna Jacquerie movimentista. Di questo si tratterà nei tre successivi capitoletti.
I revisionisti in Italia Ci sono due revisionismi, in Italia, e una di queste posizioni, in piena campagna elettorale, è quella del presidente del consiglio Mario Monti, che si accinge a riprendersi il governo, o almeno il suo controllo, per continuare le riforme strutturali in senso neoliberista. Monti si definisce un sostenitore dell’”economia sociale di mercato” alla tedesca, ma il suo approccio, negli incarichi di governo, è quello di un ultraliberista che non vede il sociale, o più probabilmente finge di non vederlo. Per lui, certe cose sono invisibili, non degne di attenzione: dai suicidi dei piccoli produttori agli esodati, dagli ex ceti medi che vanno alla caritas ai disoccupati che s'impiccano. I riformatori di Monti sono esecutori, invero con scarsa autonomia, dei programmi decisi dagli organi della mondializzazione, europei e internazionali. Lo stesso Monti, primo riferimento tecnopolitico nel paese delle élite finanziarie internazionalizzate, che manovrano lui e gli organismi europidi, ha un’autonomia programmatica limitata ed è principalmente un “executive” di alto livello, espressione degli interessi di potenti banche d’affari e della falsa europa unionista. Per lui, che crede o finge di credere nel libero mercato planetario, (s)vendere allo straniero i pezzi ancora appetibili della struttura produttiva nazionale è una cosa naturale, scontata. L’altro revisionismo, inevitabilmente convergente con il primo, è quello del pd-cs, il quale, nonostante un conclamato “laburismo”, condivide le linee programmatico-strategiche decise all’esterno del paese con i cosiddetti riformisti di Monti. I revisionisti sono destinati a convergere in esecutivi soggetti all’autorità e al controllo unionista e a governare il paese per conto delle élite finanziarie dominanti. La funzione di Monti e degli esponenti del suo cartello elettorale è quella di adoperarsi e vigilare perché l’esecutivo in carica porti a compimento le controriforme nei tempi previsti. La funzione degli altri revisionisti, quelli “di sinistra”, è duplice: (a) collaborare con Monti al governo concretando l’unico programma neoliberista attraverso finanziarie e decreti, nel rispetto della tabella di marcia, (b) ingannare le masse di dominati che subiscono le controriforme, in prima battuta agitando in campagna elettorale la carota delle promesse, millantando l’applicazione di politiche socialmente più misericordiose, e successivamente facendo digerire alle masse le controriforme adottate – ben diverse dai volatili programmi elettorali – senza che si verifichino gravi scossoni nella società italiana, lunghi scioperi generali (ma a evitare questi fastidi ci pensa la “collegata” cgil) o addirittura insurrezioni spontanee. Infatti, se il pd era critico nei confronti del recepimento del pareggio di bilancio in costituzione, poi “ha chiuso un occhio” e l’ha votato e accettato. A differenza dei revisionisti-riformisti del centro euromontiano che non si pongono la questione sociale, i revisionisti “di sinistra” del pd devono porsela, vista la composizione del loro elettorato, e soprattutto devono far digerire con ogni mezzo (e menzogna) l’impoverimento di massa alle masse progressivamente impoverite.
Gli inaffidabili interni al sistema Sono quei partiti e quei cartelli elettorali che non godono della piena fiducia della classe globale dominante e che quindi si tende a ridimensionare e addirittura a demolire con le inchieste della magistratura, il battage mediatico conseguente, gli attacchi dei media stranieri e dei politici eurounionisti, o addirittura degli Usa. In Italia gli inaffidabili sono essenzialmente il pdl guidato da Berlusconi e l’alleato leghista, anche se ve ne sono altri minori, come ad esempio l’idv dipietrista che però è già stata distrutta dai media e dalle divisioni intestine. Ma si tratta di forze politiche perfettamente inserite nel sistema liberaldemocratico che potrebbero appoggiare, in particolari condizioni e in caso di necessità, governi eletti o non eletti espressione degli interessi globalisti dominanti. Così ha fatto il pdl che ha appoggiato Monti a lungo, abbassando la testa e votando una cinquantina di volte la fiducia al governo. Si tratta di forze con qualche esecrabile lineamento populista (dal punto di vista neoliberale), non perfettamente allineate, anche se non osano esprimere, o non sono in grado di esprimere, veri e propri programmi alternativi all’unico programma delle élite finanziarie egemoni. Nessuno di loro ha il coraggio di affermare chiaramente che per salvare il paese si deve uscire dall’euro e dalla ue. I suddetti possono però servire, nei rituali liberaldemocratici, per interpretare la parte dell’opposizione e dare l’impressione che esistono veri e propri programmi alternativi, in competizione reciproca. Sono utili ai dominanti per creare l’illusione della scelta fra una pluralità di prodotti, come accade in campo commerciale e nel marketing, anche se i più indisciplinati rischiano di essere ridimensionati o addirittura distrutti per via giudiziaria e/o mediatica, come nel caso della lega e dell’idv. Non si può negare che il pdl e la lega (ed anche l’idv confluita in rivoluzione civile) hanno qualche lineamento “populista”, in contrasto con i piani e le politiche dettate dal grande capitale finanziario. Un esempio è la richiesta di rinegoziazione delle condizioni di partecipazione dell’Italia all’euro, espressa in modo vago da Berlusconi, se riuscirà a riprendersi governo. Il pericolo per i globalisti è che queste forze – complici i rigori della crisi strutturale e il diffondersi di un profondo malessere sociale nel paese, fra gli stessi imprenditori colpiti dalla globalizzazione e dall’euro – possano sfuggirgli di mano e iniziare a “fare sul serio”. Ci sono poi i falsi inaffidabili, cioè coloro che simulano posizioni non ortodosse, critiche nei confronti del libero mercato, della finanza e della moneta unica, ma che in verità hanno la funzione di attrarre voti popolari imbrogliando gli elettori. E’ questo il caso di Vendola e del sel, principale alleato del pd di Bersani. Ciò che unisce gli alleati sel e pd, oltre all’unico programma neocapitalistico deciso all’esterno dell’Italia, ma non rivelabile nella sua crudezza agli elettori, è la comune funzione di ingannare le masse.
La nuova Jacquerie movimentista A rappresentare queste forze sorte più o meno spontaneamente nel paese vero, in rappresentanza diretta di una popolazione che ha perso fiducia nei revisionisti ed anche negli inaffidabili, in Italia abbiamo Beppe Grillo, con l’inseparabile consigliere Gianroberto Casaleggio e il movimento 5 stelle. Il 5 stelle è un po’ come il vecchio popolo che alla fine del Medioevo ha cercato di mettersi in marcia, guidato dai suoi capi e dal desiderio di giustizia sociale e distributiva, scontrandosi con gli apparati coercitivi e repressivi del potere dell’epoca. A differenza dei seguaci trecenteschi di Jacques Bonhomme, gli “autoconvocati” di m5s hanno un’origine squisitamente virtuale, i loro primi vagiti sono stati uditi in rete (grazie al blog di Grillo edito dalla Casaleggio Associati), ma negli ultimi tempi hanno invaso il malconcio mondo reale, e i quotidiani comizi di piazza di Beppe Grillo, il suo pellegrinaggio di città in città lo testimoniano ampiamente. Dai primi V-day al parlamento, passando attraverso le liste locali amministrative con il “bollino blu”, ormai sembra che l’approdo nel mondo reale, funestato da problemi apparentemente irresolubili, sia pienamente riuscito e sia definitivo. Non si tratta di piraten monotematici scaturiti dalla rete e ancora prigionieri di quella realtà parallela, ma di un fenomeno virtuale che è diventato una questione politica e sociale concreta, sempre più rilevante e aderente alle aspettative popolari in un lungo periodo di crisi, senza precedenti dal dopoguerra del novecento a oggi. Ascoltando Grillo, in certi passaggi si ha l’impressione che evochi, con un linguaggio popolaresco a tutti comprensibile, una sorta di nuovo Lavoratore Collettivo Cooperativo Associato quale immagine attualizzata del General Intellect marxiano. Un nuovo Lavoratore Collettivo, animato da rinnovati vincoli solidaristici e comunitari, che dovrà gestire in condizioni di emergenza e forse in stato di assedio (ue, usa, nato, poteri finanziari), dopo la rotta della partitocrazia e la débâcle sistemica, non un’azienda, uno stabilimento, una fabbrica, ma molto di più: un intero stato. Balzana ma significativa l’idea di Grillo di cooptare nel governo una madre di famiglia, con figli, esperta in gestione dei bilanci familiari e attenta al risparmio (ai tagli di spesa!) per affrontare le spese di casa. Emerge da questa metafora grillesca una concezione amministrativa dell’economia quale “buona economia” – l’oikos nomos degli Elleni, applicabile sia alla casa sia allo stato – contrapposta a cremata, al far danaro con il danaro, alla crematistica nuovo-capitalista nutrita dalla velocizzazione della creazione finanziaria del valore. La contrapposizione è antica, e anche i recenti richiami comunitari di Grillo testimoniano una volontà, per quanto genericamente manifestata, di superamento del rapporto sociale neocapitalistico fondato sulla peggiore crematistica. Non sappiamo se la rotta della partitocrazia è imminente, come sperano Beppe Grillo e i suoi, perché ci sono potenti forze esterne che sorreggono il sistema così com’è, disposte a farlo fino alle estreme conseguenze, ma la nuova Jacquerie si è messa in moto e si vede, accompagnata da un “sentiment” popolare inedito che non potrà non riflettersi sul voto politico di febbraio. Fra le file di questo movimento non si sente ripetere l’ossessivo e odioso ritornello “io sono liberale”, “io sono liberale”, “io sono liberale”, tipico dei revisionisti e anche di molti inaffidabili del sistema, servitori del neocapitalismo che così testimoniano la loro miseranda fede e tentano di accreditarsi. Se revisionisti e inaffidabili sono di casa negli studi televisivi, sempre pronti per l’ennesimo talk-show, sorridenti e coperti di cerone, gli m5s difficilmente vi mettono piede, e non solo per il divieto di Grillo, ma perché ben dispongono di ben altri canali comunicativi. Che fine faranno i nuovi Jacques Bonhomme Grillo, Casaleggio e le schiere popolari che li seguono? Non è dato sapere, ma la Jacquerie, estesasi nel mille e trecento come un’onda di proteste politiche e sociali, non portò alla Rivoluzione e si fermò, o fu fermata, prima di oltrepassare quella linea rossa oltre la quale c’è la trasformazione delle società umane e il cambio di Evo. Inoltre, una cosa è governare un comune di duecentomila abitanti come Parma, per quanto oberato da qualche centinaio di milioni di euro di debiti, ma ben altra cosa è governare un intero stato, privo di sovranità monetaria e oberato da debiti ben maggiori nei confronti delle banche. Aspetti di nuova Jacquerie, frammisti però a lineamenti liberisti e ostilità nei confronti del settore pubblico, sono presenti anche nel piccolo movimento “fare per fermare il declino” del giornalista Oscar Giannino, deluso da Monti e da Berlusconi. Le convergenze di fare con m5s riguardano la legalità, l’estraneità nei confronti del sistema dei partiti, la necessità di cambiare la legge elettorale e tagliare i costi della politica, ma non gli aspetti economici e le (necessarie) nazionalizzazioni di banche e industrie paventate da Grillo. I seguaci di Giannino sono imprenditori e professionisti che rischiano la rovina a causa della crisi strutturale, e quindi si sono messi in moto – da liberali e liberisti! – contro un sistema neoliberale e neoliberista che minaccia di schiacciare anche loro. Qualche traccia di Jacquerie del ventunesimo secolo si può trovare, infine, nella rivoluzione civile che segue l’ex magistrato Ingroia, ma qui il discorso si fa più sfumato e incerto, perché i “reduci” del sistema dei partiti che stanno dietro a Ingroia vanno dalla rifondazione comunista ai dipietristi dell’idv, passando per i verdi, e alcuni di questi personaggi hanno fatto carriera in politica e hanno avuto incarichi di governo, come Paolo Ferrero e Antonio Di Pietro. Alcuni fra questi sono lì come ripiego, perché i revisionisti del pd non li hanno voluti in coalizione (Di Pietro, Ferrero e altri). Se le piccole Jacquerie entreranno in parlamento con la grande, riusciranno a trovare il minimo comun denominatore per fare un’opposizione vera, destabilizzante per il sistema, in attesa di una vera Rivoluzione? Speriamo che almeno questo sia possibile.
Nota di chiusura Se questo è il panorama elettorale italiano, descritto in sintesi, non ci resta che auspicare la sconfitta dei revisionisti (Monti e il pd) per mano di Jacques Bonhomme e degli inaffidabili. Il risultato sarà un temporaneo congelamento delle controriforme neocapitalistiche e un ritorno alle urne in tempi brevi, una volta constatata l’ingovernabilità. I morsi della crisi, lo spread e gli attacchi speculativi faranno precipitare ancor di più, nel breve, le condizioni di vita della popolazione, e a quel punto non servirà che lo dica l’istat, o il censis, perché ciascuno lo sentirà sulla propria pelle. Ma ci sarà pur sempre la speranza che le successive elezioni registrino una sconfitta più pesante dei revisionisti e un’avanzata decisiva della nuova Jacquerie. Allora sarà più difficile “restare in Europa” e avremo, forse, una possibilità per salvarci. La Rivoluzione, come chiarito nella premessa, è l’unica strada sicura per uscire definitivamente dal neocapitalismo e dal suo inquietante ordine sociale, che separa definitivamente i dominanti globalisti dalle masse pauperizzate, riducendo gli stati e le nazioni a docili strumenti nelle mani del libero mercato. Ma purtroppo non è ancora questa la direzione di marcia della storia. La moderna Jacquerie, suscitata dai Bonhomme contemporanei rimessisi in cammino, è una speranza, un antefatto, un preludio rivoluzionario, un segnale che la storia sta svoltando, o soltanto una protesta di popolo destinata a rientrare, a spegnersi nel tempo o a essere repressa? I prossimi due anni saranno decisivi e lo chiariranno definitivamente. Due anni, volendo andare larghi, “perché ormai non c’è più tempo”, come va ripetendo nelle piazze, in questi giorni, Jacques Bonhomme … pardon, Beppe Grillo.
Precisazioni in merito all’ultimo post “I revisionisti, gli inaffidabili e la nuova Jacquerie” pubblicato il 18 febbraio di Eugenio Orso
Nella presente integrazione del post pubblicato lunedì mi voglio occupare della nuova Jacquerie movimentista, presente nel panorama elettorale italiano e incarnata dal cinque stelle di Beppe Grillo.
Mentre Grillo, davanti a una piazza stracolma, intima la resa ai partiti sistemici, promettendo che non gli sarà fatto del male se si faranno “spontaneamente” da parte, circolano voci secondo le quali il suddetto avrebbe già superato Berlusconi, in termini di consensi, e non gli resterebbe che vedersela con Bersani, per diventare il primo partito. Ha ottenuto l’importante appoggio di Celentano, che potrebbe portargli nuovi consensi, e la presenza sul palco di Milano di Dario Fo. E’ chiaro che l’apparato ideologico-massmediatico che fa tutt’uno con il cosiddetto sistema dei partiti potrebbe a questo punto non bastare, per fermare la sua avanzata e quella del movimento. Grillo, pur essendo un pericoloso “populista” e un “antidemocratico” che non partecipa agli show televisivi, come asseriscono i guitti neoliberali del sistema (ad esempio Bersani), non è Benito Mussolini, e intende aprire il parlamento come una scatoletta, non certo per farne un bivacco di manipoli, ma per consegnarlo al movimento popolare che lo segue. Oggi, il più vicino alla popolazione italiana, truffata e sfruttata dalla politica di sistema per conto dei poteri finanziari dominanti, è proprio lui, e soltanto lui ne interpreta la rabbia, le frustrazioni, i desideri e una risorgente, per quanto ancora confusa, volontà di riscatto. E’ inutile negare l’evidenza, perché è proprio così e questo l’ha compreso anche l’apparato, che sente la minaccia e cercherà di correre ai ripari. Le televisioni, che rappresentano altrettante fonti di condizionamento, disinformazione e propaganda sistemica, non si possono più permettere di nascondere completamente la realtà, e devono perciò mostrare le piazze piene, i comizi del cinque stelle, i volti anonimi di decine di migliaia di partecipanti, mentre gli studi televisivi, trasformatisi in ridotta del potere, pullulano di nullità politiche che si agitano scompostamente, angosciate per i quozienti prossimi venturi. La perdita di legittimità del sistema e di credibilità dei suoi subagenti politico-mediatici sembra ormai irrimediabile. Non si tratta soltanto di una lotta fra le nuove forme di comunicazione e le vecchie utilizzate dal sistema, una lotta fra la rete e la tv, oppure fra la carta stampata e l’informazione via internet, né di un anacronistico ritorno al comizio di piazza, caratteristico della prima repubblica. La vera lotta è quella fra le masse pauperizzate, diventate bestiame da macello sociale, e i collaborazionisti, i kapò dell’occupatore del paese,ossia le élite finanziarie che controllano l’unione europoide e i mercati globali. Ci sarà una clamorosa sorpresa, nella notte fra il 25 e il 26 febbraio? Non mi sento di affermarlo, ma sicuramente la nuova Jacquerie movimentista che invade le piazze è un fenomeno sociopolitico nuovo, autenticamente di popolo, insidioso per la tenuta della liberaldemocrazia assolutistica e sgradito ai poteri esterni che manovrano i vari Monti, Bersani, Casini e compagnia cantante. Grillo come il Bonhomme francese Étienne Marcel o il capo dei Ciompi Michele di Lando? A differenza delle rivolte trecentesche dei Ciompi fiorentini e dei Bonhomme parigini, movimenti di popolo che in quel secolo nacquero e si spensero senza annunciare la Rivoluzione, questa grande insubordinazione di massa, indipendentemente dal suo esito nel breve, può annunciare l’avvio di un processo che ci porterà fuori dalle secche del presente e dalla dominazione finanziaria neocapitalistica, quindi l’innesco di un vero e proprio processo rivoluzionario. O almeno servirà per scuotere la popolazione italiana e consentirle di vincere il torpore nel quale è caduta, da un paio di decenni a questa parte. Del resto, Beppe Grillo ha ben compreso la situazione, ha capito che siamo vicini a un punto di rottura storico, e in piazza ha affermato con chiarezza, senza fronzoli, che se il movimento cinque stelle non riuscirà a “far andare a casa” tutti i politici, mettendoci una croce sopra, quelli che verranno dopo le croci le metteranno veramente. Non è ancora una Rivoluzione, la sua, ma è la prova di un parziale risveglio dei dominati e delle loro coscienze.
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