Filippo Ales:La mia malattia: “Il morbo di Parkinson “ o “Malattia di Parkinson”.

Avete mai sentito parlare della malattia di Parkinson? Conoscete qualcuno che abbia questa malattia?. Sicuramente qualcuno si, ed in particolare chi conosce il sottoscritto che ne soffre da 17 anni, e come vedete, si può anche trascorrere una vita, più o meno normale, più o meno serena. La prima cosa da fare per chi ha avuto diagnosticato questo malanno, è non scoraggiarsi, ed abituarsi ad accettare la malattia per quella che è, per poterla combattere. Essa porta il nome dell’inventore, o meglio di chi l’ha scoperta: Mister Parkinson. Perché mi è venuto di scriverne e palarvene?. La malattia di Parkinson è una malattia molto diffusa nel mondo. Si stima che il morbo di Parkinson sia la seconda malattia più frequente dopo l’Alzheimer - e colpisca in Europa un individuo ogni 500 persone. Considerato l’enorme numero di malati affetti dalla grave patologia, credo sia interessante saperne di più, al fine di poterla curare e creare una rete, soprattutto per accudire chi in casa ha un
“parkinsoniano” e per attivare i servizi sociali di cui questa malattia necessita. Sarebbe utile che, come nel resto d’Italia, potessero svilupparsi anche da noi dei gruppi di auto-aiuto e di sostegno sociale per chi ne avesse bisogno e credetemi sono tanti, sono troppi coloro che hanno bisogno….di aiuto. Vorrei che questo gruppo potesse servire a scambiarsi informazioni e link utili
al fine di una conoscenza più approfondita e seria della malattia! La “malattia di Parkinson”si presenta sotto varie forme: le più comuni sono:
a) rigidità, ossia blocco di uno o di tutti e due gli arti inferiori,
b) discinesia, ossia movimenti involontari e scomposti del corpo,
c) tremore agli arti inferiori e superiori .
Ci sono poi una serie di “cosiddetti parkinsonismi” che, in alcuni casi, somigliano al Parkinson, ma non sono veri e propri “Parkinson”. Detto ciò, la malattia è curabile? E se si, come si può curare? Diciamo subito che dalla malattia di Parkinson non si guarisce con una cura, ma vanno
sperimentate, di volta in volta, le cure per renderla meno aggressiva. Possiamo dire che oggi il Parkinson è una malattia progressiva e invalidante, pertanto è una malattia, che ha bisogno di cure continue. Ricordiamoci, per riderci un po’, che questa malattia ha colpito i più grandi attori e le maggiori personalità del mondo. Ad esempio: il più grande papa degli ultimi tempi Papa Santo Giovanni Paolo II°, il pugile Cassius Clay erano affetti del morbo di Parkinson e numerosissimi altri attori. Ciò che necessita è consentire al paziente di svolgere al meglio le funzioni, si da rendere più vivibile la qualità della vita del parkinsoniano. Ma quando ci si ammala di Parkinson? Quando diminuiscono, o vi è assenza nel cervello di quella materia grigia che si chiama “dopamina”, la malattia progredisce. Attualmente come sicura? Prevalentemente con medicine a base di levodopa che serve a riprodurre la dopamina che manca nel cervello. Ma a parte le cure di cui abbiamo parlato, quali altre cure e su quali speranze può contare l’ammalato di Parkinson? Considerato i progressi della scienza non è lecito scoraggiarsi , ma occorre guardare avanti con interesse e seguire i passi, che mam mano si vanno facendo. Ma andiamo al concreto: tra i passi avanti più importanti quali possiamo annoverare tra i più percorribili?

LA STEP BRAIN STIMULATION
Quando decisi di fare il passo che sto per raccontarvi, il mio medico curante, neurologo, la dott.ssa Marina Rizzo, mi consigliò di andare al “San Paolo” di Milano, sicura che avrebbero saputo gestire al meglio la preparazione all’intervento. La dott.ssa Rizzo, godeva della mia fiducia e della mia stima. Armi e bagagli partii, accompagnato da mia moglie, che mi ha sempre seguito nella gestione del mio Parkinson, per Milano (per la cronaca io risiedo a Palermo…). Dicevo che, dopo accurata… preparazione, fatta al S.Paolo di Milano, nel corso della quale i neurologi, guidati dal dott. Filippo Tamma e gli psicologi presenti mi hanno preparato all’intervento, anche scoraggiandomi molto spesso, dicendomi tutto ciò che di brutto poteva succedere, ma anche i vantaggi che avrei avuto dallo stesso. Io, per fortuna, avevo affrontato il problema in tutti i suoi aspetti con mia moglie, ed ero perfettamente deciso a farlo. A me che il pk portava rigidità nei movimenti, provocandomi spesso anche brusche cadute e qualche volta con rotture varie, soprattutto alla spalla. Ma ciò di cui maggiormente mi lamentavo, e che mi dava più fastidio era la discinesia (ovvero movimenti involontari). Soprattutto che ancora, (cinque anni fa) lavoravo e svolgevo ruoli pubblici, la discinesia, ossia questi movimenti per me erano diventati sempre più
insopportabili. Mi sentivo ridicolo ed erano, incompatibili con i ruoli che svolgevo per il mio lavoro. Ero presidente di una cooperativa sociale che si occupava di disabili, anziani, minori, tossicodipendenti (etc. etc.), e svolgevo anche attività di rappresentanza. Ah dimenticavo dirvi che il pk mi era stato diagnosticato nel 1996, ma ne soffrivo già da oltre due anni prima. Torniamo al S.Paolo. Mi spiegarono che vi erano due tipologie di intervento possibili in rapporto ai risultati che si voleva raggiungere ed in rapporto ai disturbi di cui soffrivo. Gli interventi che potevano eseguirsi erano dunque due: al pallido ed al sub-talamo. I miei preparatori avevano già deciso: per loro l’intervento “al pallido” era quello che mi avrebbe dato i risultati migliori soprattutto per la discinesia. Io, invece pensai che giacchè tutti si orientavano sul sub-talamo, i miei medici volessero sperimentare il pallido, perchè non veniva praticato da una decina d’anni e ne volevano testare i risultati(sarò stato una mala lingua… però l’ho pensato!). Dopo 15 giorni torno a casa, e vado a prepararmi per il grande passo, che sarebbe avvenuto in un giorno indimenticabile, il 29 Febbraio 2008, giorno bisestile. Arrivai qualche giorno prima e mi sistemai al padiglione Beretta. Conobbi il dott. Egidi ed il dott. Locatelli, neuro chirurghi. Conobbi poi una schiera di infermieri professionali molto bravi. Appena arrivato mi tolsero le medicine che prendevo in quel momento (levodopa e mirapexin), mi prepararono per l'intervento che doveva svolgersi la mattina seguente. La cosa che più mi impressionò fu il sentire che sarei stato con un casco di ferro imbullonato alla testa e che l'intervento sarebbe durato circa otto ore. Io ho un nipote medico chirurgo, molto affettuoso, che, sentito dell'intervento che avrei fatto, volle accompagnare me e mia moglie a Milano e chiesi, una volta arrivati al "Beretta" al dott. Egidi se mio nipote poteva assistere all'intervento. La risposta fu positiva ed allora presentai ad Egidi
il dott. Fabio Santangelo e fui felice di avere accanto in quei momenti particolari anche da mio nipote Fabio. Mi portarono a fare la tac, mentre la risonanza magnetica me la fecero fuori, al S. Raffaele. Siamo al giorno fatidico. Non facevo altro che pensare e ripensare.... Ecco perchè al San Paolo tentavano di scoraggiarmi dal fare l'intervento...E se non fossi tornato vivo. Pensavo ai miei figli, e pensai che l'unica cosa da fare era pregare, e così feci per ore. Però Egidi mi faceva parlare in continuazione, mi chiedeva mille cose diverse, mentre mi imbullonava la testa dentro un casco di metallo, fino a quando non si muoveva più e non potevo guardare che un solo punto alla parete. Il tempo passava, i medici scherzavano e per fortuna che c'era Fabio accanto a me che mi
stringeva la mano e cercava di tenermi sveglio. Forse non ve lo avevo ancora detto. L'intervento non è in anestesia perchè il paziente deve stare sveglio e collaborare. E mentre i medici parlavano con me, sentivo che con un trapano mi bucavano, in diversi punti diversi, la testa. Alla fine mi resi conto poi che mi avevano bucato la testa in sei punti diversi. Non potete immaginare come ci si sente: il fastidio di non potersi muovere, il non sentire dolore mentre con il trapano ti bucavano la testa (credo che iniettassero anestesia in superficie), e tra un buco e l'altro sentivi i medici che ridevano, raccontavano barzellette, cercando anche di coinvolgermi. E mentre le ore passavano i medici traccheggiavano con i fili: erano i diodi, che dalla testa sarebbero stati collegati ad una batteria posizionata in un punto sul petto, al lato destro. Questo avvenne in un secondo intervento che fu fatto dopo tre giorni dal primo, in anestesia generale, di durata inferiore, all'incirca due/tre ore. Ma torniamo al primo. Cominciano a togliermi i bulloni che legavano il casco, operazione questa che durò moltissimo. L'intervento finisce quì. E' inutile dirvi che a quel punto sono veramente sfinito. Comincio a non farcela più. Per fortuna che Fabio continua a parlarmi e mi dice finalmente, che abbiamo finito. Esco dalla sala operatoria, ricordo che un pianto liberatorio mi fa abbracciare mia moglie e i miei figli che mi aspettavano fuori da otto ore.
Filippo Ales
Belmonte Mezzagno, 21.03.2012

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