1974 Belmonte Mezzagno: qui Dell’Utri conosce Mangano ? Lo stalliere mafioso di Berlusconi.


Vittorio Mangano e Marcello Dell'Utri

Le Cosche, i pentiti, gli affari miliardari, i colletti bianchi e i faccendieri, spesso Belmonte si trova tra le righe di un magna magna vecchio 40 anni.

Per via delle recenti dichiarazioni di Grasso...tra una lettura ed un'altra mi ritrovo per le mani questa "notizia"

si tratta di un fonogramma dei Carabinieri del 27 Dicembre del 1974 che Peter Gomez e Leo Sisti citano nel libro  “L’Intoccabile”



Qui uno stralcio

Quando si è trattato di parlare – sia con i magistrati, sia con i giornalisti – del loro primo incontro, Dell’Utri e Mangano hanno sempre tirato in ballo la Bacigalupo, una squadra di calcio giovanile creata dal braccio destro di Berlusconi e da suo fratello Beppe nel 1957. Già nel 1987, Dell’Utri aveva affermato di aver conosciuto Mangano sui bordi di quei campi da gioco, per arrivare poi a spiegare, nel 1996, che a cementare i loro rapporti era stato Gaetano Cinà, il titolare di una lavanderia di Palermo, oggi ritenuto uomo d’onore della famiglia di Malaspina. «Cinà», ricorda Dell’Utri, «era il padre di uno dei tanti ragazzi che imparavano il football nella scuola di calcio dove ero istruttore. Mangano assisteva alle partite. Veniva da noi talvolta da solo e talvolta con Cinà del quale era amico».
 Il 27 dicembre del 1974 i carabinieri sembrano però pensarla in ben altro modo. Nel loro fonogramma, infatti, annotano: «Dell’Utri era impiegato nella banca di Belmonte Mezzagno – Cassa di Risparmio – dove avrebbe conosciuto il Mangano».  All’inizio di tutto, insomma, potrebbe non esserci stato solo il calcio, ma anche un legame nato nella filiale della Sicilcassa dove Dell’Utri, prima di lavorare per Berlusconi, era stato preposto di agenzia.

Sono anni in cui maturerà l’affare del Gas ( così chi pampini)che ha visto mafia, politica e colletti bianchi girare a braccetto…

Il primo capitolo de “L’Intoccabile”.

Il Contratto


Quando varcò per la prima volta i cancelli di villa San Martino, ad Arcore, Vittorio Mangano stava per compiere 34 anni. Ormai da qualche mese era abituato a far la spola tra Palermo e Milano, dove divideva un piccolo appartamento con la suocera e il cognato – un operaio dell’Ansaldo impegnato nel movimento sindacale – che tentava sempre di coinvolgerlo in estenuanti discussioni politiche. Tutto quel parlare di lavoratori, di padroni, di comunisti, a Mangano non piaceva. Ma almeno fino alla primavera del 1974, quando si trasferisce con moglie e figlie nella tenuta di Silvio Berlusconi, il giovane boss lo sopporta di buon grado: in fondo, più stava lontano dalla Sicilia e meglio era. Palermo, infatti, gli andava stretta. La questura già nel 1967 lo aveva diffidato come persona pericolosa, e poliziotti e carabinieri da qualche tempo sembravano avercela particolarmente con lui. Nel giro di cinque anni aveva collezionato una lunga serie di denunce, arresti e condanne per reati di ogni tipo. Procedimenti penali per truffa, assegni a vuoto, ricettazione, lesioni volontarie, tentata estorsione, che lo avevano portato in prigione per ben tre volte.

Vittorio Mangano era insomma una testa calda. Ma ci sapeva fare. Per questo Cosa nostra gli aveva messo gli occhi addosso. Gli uomini d’onore lo avevano osservato in silenzio e in silenzio lo avevano visto crescere. Avevano apprezzato la sua capacità di non parlare con gli sbirri, di rispettare gli anziani e le regole del carcere. Nel 1969, all’Ucciardone, Mangano aveva anche conosciuto Gaspare Mutolo, uomo d’onore della famiglia di Partanna Mondello, e da quel giorno aveva preso a frequentare assiduamente la gente di rispetto guadagnandosi la stima e l’amicizia di uno dei tre capi assoluti della mafia dell’epoca: il “principe di Villagrazia’’ Stefano Bontate 1.

Della sua rapida ascesa alla fine si erano resi conto anche gli investigatori della Squadra mobile di Palermo, che il 26 ottobre del 1972 lo avevano fermato su un’auto mentre era in compagnia di Gioacchino Mafara, trafficante di droga e «indiziato mafioso». Mangano voleva emergere. Non si considerava un semplice criminale. Sentiva di poter fare e valere molto di più. Nonostante avesse abbandonato gli studi al terzo anno di perito industriale, era ambizioso e puntava in alto: all’élite non solo della delinquenza, ma anche della società civile.

Ricorda Francesco Scrima, il cugino del capo della famiglia mafiosa di Porta Nuova Pippo Calò della quale proprio Mangano nel 1993 verrà nominato reggente: «Vittorio aveva un carattere particolare… Un carattere che definirei conviviale. Amava i bei vestiti e i modi raffinati». Per questo l’Onorata società – su presentazione di uno dei maggiori contrabbandieri di sigarette e di droga dell’epoca, Nicola Milano – lo aveva ammesso proprio nel clan di Calò e Tommaso Buscetta, decidendo quasi subito di utilizzarlo per tenere i contatti con gli industriali e gli imprenditori del nord. Questo almeno è il parere espresso dal giudice Paolo Borsellino nel corso di un’intervista televisiva concessa nel maggio 1992, 48 ore prima della strage di Capaci. Quel giorno, seduto nel suo appartamento palermitano di via Cilea, Borsellino spiega al giornalista francese Fabrizio Calvi: «Nell’ambito di Cosa nostra Mangano era una delle poche persone in grado di gestire rapporti con gli ambienti industriali» 2.

Ma anche nella mafia la strada che porta al successo è lunga e disseminata di ostacoli. E quando Vittorio Mangano riesce ad approdare alla corte del trentasettenne Silvio Berlusconi, si rende conto che la sua vita è a una svolta. Da quel momento per lui niente sarà come prima. La cronaca dell’arrivo di Mangano ad Arcore e delle reali mansioni che è stato chiamato a svolgere è ricca di misteri, ambiguità e contraddizioni. Su un solo punto testimoni e protagonisti sono tutti concordi: Mangano è legato al braccio destro di Berlusconi, Marcello Dell’Utri, palermitano come lui ma più giovane di un anno.

Il 4 aprile 1995, Mangano racconterà ai magistrati di Palermo: «Io e Marcello ci siamo conosciuti tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, quando lui gestiva la squadra di calcio della Bacigalupo all’Arenella. Dal nostro incontro casuale nacque un rapporto di conoscenza. Dell’Utri venne così a sapere che ero esperto di bestiame e di cavalli. Tre o quattro anni dopo mi telefonò per propormi un lavoro nella villa di Berlusconi». Ufficialmente, il giovane boss si trova così a dirigere «l’azienda agricola e la società ippica di cui Berlusconi era titolare». «Mi occupavo un po’ di tutto», dice, «dalla compravendita alla doma, all’addestramento dei cavalli, fino a quando non iniziavano a gareggiare. Con l’aiuto di alcuni artieri ho così allenato decine di puledri per volta… Vedevo Berlusconi ogni giorno e avevo con lui gli ordinari rapporti tra titolare e impiegato. Ero totalmente libero nel mio lavoro perché sia Berlusconi che Dell’Utri non s’intendevano di cavalli. Dell’Utri, che abitava nella villa di Berlusconi, mi veniva a trovare spesso nelle scuderie e a poco a poco io gli ho insegnato a montare».

Ma in villa Vittorio Mangano ricopre anche altri incarichi, molto più delicati. Per i coniugi Carla e Silvio Berlusconi avere in casa quell’uomo alto, forte, gentile, dai tratti del viso vagamente mediorientali, rappresenta una sicurezza. L’ombra della sua figura che passeggia nel parco tenendo al guinzaglio sei mastini napoletani sembra essere in grado di scoraggiare qualsiasi malintenzionato. E di malintenzionati in quegli anni ce ne sono davvero tanti. A partire dal 1972, la Lombardia deve fare i conti con una drammatica escalation di sequestri di persona: in provincia di Milano, dai 3 rapimenti del 1973 si è passati a 10 soltanto nei primi mesi del 1974. Chiunque sia ricco – e Berlusconi lo è – teme per sé e per i propri cari.

Vittorio però è anche disposto ad alzarsi tutte le mattine di buon’ora per accompagnare a scuola e all’asilo Marina e Piersilvio, i rampolli del padrone di casa. Tra i ragazzi di Berlusconi e le due prime figlie di Mangano – Loredana e Cinzia – nasce anzi una vera e propria amicizia. Il piccolo Piersilvio adora il fattore siciliano che lo chiama con il nomignolo di Dudù, mentre Marina grazie alle sue lezioni impara subito a montare a cavallo. Tanta dedizione viene ricompensata con grande generosi-tà: «Berlusconi mi retribuiva con la somma di 500.000 lire al mese. La paga comprendeva l’uso dell’abitazione di via San Martino per me e per la mia famiglia». È un salario da favola. Mangano se ne rende conto benissimo. Visitato da due medici del Tribunale, il 27 luglio 1996, il boss affermerà: «Nel 1972 lo stipendio di un magistrato era di 100 mila lire… Io prendevo cinque volte tanto e a un certo punto le cinquecentomila lire al mese sono diventate un milione!» 3. Insomma, fatti i debiti calcoli è facile accorgersi come Mangano guadagnasse, ai valori odierni, più di 8 milioni mensili.

Anche per questo Vittorio e sua moglie, Marianna Imbrociano, conserveranno sempre un ricordo bellissimo degli anni formidabili trascorsi a villa San Martino. E per testimoniare il loro legame con la famiglia Berlusconi, nel 1975 battezzeranno la loro terzogenita Marina, come la figlia di Silvio. Berlusconi e Marcello Dell’Utri saranno invece sempre molto avari di particolari e spesso in contrasto tra loro nel rievocare quel periodo e l’assunzione – definita «casuale» – del pregiudicato Mangano. Interrogato una prima volta nel 1987 dai magistrati di Milano 4, Berlusconi dirà: «Ad Arcore avevo bisogno di un fattore, di uno che si occupasse dei terreni, dei cavalli, degli animali… Chiesi a Dell’Utri, che mi presentò Vittorio Mangano come persona conosciuta da un suo amico: assumerlo fu una mia scelta, su una rosa di nomi che mi vennero prospettati. Non feci indagini preventive perché Mangano mi diede l’idea di una persona a posto e competente… Avevo in animo di impostare un’attività di allevamento di cavalli che poi non fu realizzata». Una circostanza, quest’ultima, di fatto smentita proprio da Dell’Utri, che nel 1996 ai magistrati di Palermo spiega: «Quando Berlusconi acquistò villa Casati c’era una bellissima scuderia con un solo cavallo. Berlusconi decise di farla rivivere acquistando numerosi animali. Questa scuderia ben attrezzata esiste ancora».

Le incongruenze però non finiscono qui. Scavando nel passato, si scopre che la storia di Mangano è davvero molto diversa da quella finora ufficialmente raccontata.

«Scusate, ma io non capisco l’italiano»

Negli archivi della stazione dei carabinieri di Arcore sono custoditi due documenti imbarazzanti. Un rapporto e un fonogramma sulla base dei quali nel 1996 la Procura di Palermo sosterrà che perlomeno Dell’Utri, fin dal 1973, era al corrente dello spessore criminale di Mangano; e che dunque la sua assunzione fu il frutto non di un errore, ma di una precisa e ben ponderata scelta. Secondo l’accusa, la lettura di questi fogli ingialliti dimostra che Marcello Dell’Utri mente quando, in una mezza dozzina di interrogatori e di interviste, ha affermato di aver scoperto i burrascosi trascorsi di Mangano soltanto in occasione di un tentato sequestro organizzato da Cosa nostra ai danni di un ospite di casa Berlusconi 5. Il 30 dicembre 1974 i militari di Arcore scrivono: «Dell’Utri, anch’esso originario di Palermo, ha lasciato un impiego in banca per seguire Berlusconi ed una volta qui ha chiamato Mangano pur essendo perfettamente a conoscenza – è risul-tato dalle informazioni giunte dal Nucleo investigativo del gruppo di Palermo – del suo poco corretto passato». Non solo: nel fonogramma inviato tre giorni prima dai carabinieri di Arcore ai loro colleghi siciliani, viene anche smentita la versione, poi divenuta ufficiale, sull’origine del rapporto tra Dell’Utri e il fattore di rispetto.

Quando si è trattato di parlare – sia con i magistrati, sia con i giornalisti – del loro primo incontro, Dell’Utri e Mangano hanno sempre tirato in ballo la Bacigalupo, una squadra di calcio giovanile creata dal braccio destro di Berlusconi e da suo fratello Beppe nel 1957. Già nel 1987, Dell’Utri aveva affermato di aver conosciuto Mangano sui bordi di quei campi da gioco 6, per arrivare poi a spiegare, nel 1996, che a cementare i loro rapporti era stato Gaetano Cinà, il titolare di una lavanderia di Palermo, oggi ritenuto uomo d’onore della famiglia di Malaspina. «Cinà», ricorda Dell’Utri, «era il padre di uno dei tanti ragazzi che imparavano il football nella scuola di calcio dove ero istruttore. Mangano assisteva alle partite. Veniva da noi talvolta da solo e talvolta con Cinà del quale era amico» 7. Il 27 dicembre del 1974 i carabinieri sembrano però pensarla in ben altro modo. Nel loro fonogramma, infatti, annotano: «Dell’Utri era impiegato nella banca di Belmonte Mezzagno – Cassa di Risparmio – dove avrebbe conosciuto il Mangano». All’inizio di tutto, insomma, potrebbe non esserci stato solo il calcio, ma anche un legame nato nella filiale della Sicilcassa dove Dell’Utri, prima di lavorare per Berlusconi, era stato preposto di agenzia.

Comunque siano andate le cose, la questione rimane spinosa. Dell’Utri infatti non ha mai rinnegato «l’antico e perdurante rapporto di amicizia con Gaetano Cinà», limitandosi ad assicurare di «non aver mai avuto sentore che egli potesse essere vicino ad ambienti di mafia». Il fatto che grazie a lui Cosa nostra sia riuscita a mettere un piede in casa Berlusconi non sembra averlo turbato, né lo ha indotto – come vedremo – a tagliare i ponti con questo inquietante bottegaio amico degli amici. Classe 1930, titolo di studio «Terza elementare», Cinà è un personaggio chiave. Tutti i più importanti pentiti saranno concordi nel dichiarare che, almeno a partire dal 1980 e sicuramente fino a dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, attraverso lui il gruppo Berlusconi ha periodicamente versato alla mafia grosse somme di denaro. Cinà – o meglio «Tanino», come lo chiama il suo amico Dell’Utri – ovviamente lo nega. Interrogato due volte nell’estate 1996, il commerciante sarà però costretto ad ammettere parentele e amicizie con alcuni tra i più bei nomi dell’Onorata società come Mimmo Teresi (il braccio destro di Stefano Bontate).

Proprietario di una lavanderia e di un negozio di articoli sportivi, Cinà non ha infatti sposato una donna qualunque. Sua moglie, una Citarda, appartiene a una dinastia di gente di rispetto che, almeno fino alla seconda guerra di mafia, ha retto con il pugno di ferro la famiglia mafiosa di Malaspina. Un gruppo di uomini d’onore che al traffico di droga e alle attività delinquenziali in senso stretto alternava fitti scambi di favori con esponenti autorevoli del mondo politico siciliano. Secondo il pentito Francesco Marino Mannoia, anche Salvo Lima, il proconsole di Giulio Andreotti in Sicilia, era un picciotto della Malaspina, mentre l’ex segretario regionale della Dc Rosario Nicoletti, morto suicida il 18 novembre 1984, divideva il proprio studio di avvocato con un altro soldato del medesimo clan 8. In questo ambiente, Tanino Cinà, carissimo amico di Dell’Utri e di Mangano, sembra muoversi a proprio agio. Usa pochissimo il telefono, e quando lo fa si limita a fissare con i propri interlocutori appuntamenti a tu per tu per evitare il rischio di essere intercettati 9.

Calogero Ganci (figlio del capomandamento della Noce, Raffaele, da cui dipende la famiglia di Malaspina), e Totò Cancemi (primo componente della Cupola a essersi pentito), spiegheranno come Cinà, negli anni Settanta, fosse particolarmente legato a due boss poi uccisi dai corleonesi: Stefano Bontate e suo cugino Mimmo Teresi. Del primo già si è detto, il secondo è invece un imprenditore edile che nel 1978 sosterrà di essere in procinto di diventare socio di Silvio Berlusconi nelle prime emittenti televisive. Cinà minimizza questi contatti. Davanti ai magistrati, il 22 giugno 1996, assicura di «non conoscere affatto Bontate, persona che ritengo troppo importante per me», ma ammette i rapporti con Teresi, «nipote di mio cognato Benedetto Citarda». L’amico di Dell’Utri ricorre poi ai complicati intrecci di parentela per giustificare gli affari conclusi con l’imprenditore Salvatore Sbeglia 10, l’uomo accusato di aver fornito il telecomando utilizzato da Cosa nostra per far saltare l’autostra-da Palermo-Punta Raisi al momento del passaggio del giudice Giovanni Falcone.

«Sua madre, che è una Mazzara», dichiara Cinà, «è cugina di mia madre, e inoltre la moglie di Sbeglia, Giovannella Blandi, è nipote di mia madre. Con lui ho messo in piedi un negozio di articoli sportivi. Furono mia sorella – sposata con Angelo Prestigiacomo – e Giovannella ad avere l’idea… Ma dopo due anni abbiamo deciso di chiudere il negozio perché l’attività non andava bene». Per la Procura di Palermo, però, dietro questa iniziativa commerciale apparentemente innocente si nasconde ben altro. Sbeglia infatti è considerato un prestanome di Raffaele Ganci, il più fedele alleato che Totò Riina poteva vantare a Palermo.E sia su di lui sia su Cinà gravano pesanti sospetti di traffico di droga.

Quella di Tanino, insomma, non può certo considerarsi una bella e onesta compagnia. E l’affetto, sincero, che lega Dell’Utri a Cinà, rischia di diventare pesantissimo per il braccio destro di Berlusconi. Ricorda Tanino: «Ho gravitato a lungo negli ambienti della squadra di calcio della Bacigalupo. Infatti mio figlio Filippo giocava in quella formazione prima di essere ceduto al Varese e infine al Palermo. In quelle occasioni ho conosciuto Marcello, che allenava la squadra: era già avvocato e lavorava presso una banca. Io stesso sono stato per dieci anni dirigente della Bacigalupo. Risale ad allora la mia grande amicizia con Dell’Utri, che per me è come un figlio. Proprio lui, del resto, mi ha aiutato in un periodo buio della mia vita, quando era stato diagnosticato un sarcoma a mio figlio Filippo. Marcello, che conosceva tale Ferrara, un ex nazionale di calcio, mi mise in contatto tramite lui con il professor Gui del Rizzoli di Bologna. Questi, fortunatamente, dopo averlo visitato concluse che non vi era carcinoma. Io rimasi quindi obbligato con lui che, successivamente, si trasferì a Milano per lavorare con Berlusconi». Cinà dunque conferma che tutto è cominciato ai bordi di un campetto di calcio. Ma da detenuto, il 1° agosto 1996, sosterrà – al contrario di Dell’Utri – di non essere mai stato particolarmente vicino a Vittorio Mangano: «Con lui non vi erano altri rapporti oltre alla comune frequentazione di ambienti calcistici. Dopo di allora non l’ho neppure più visto».

La preoccupazione maggiore di Cinà sembra comunque essere quella di negare ancora e sempre i legami con il boss di Santa Maria del Gesù Stefano Bontate. Definirlo, come aveva fatto nel primo interrogatorio, «una persona troppo importante per me», è stato indubbiamente un errore: una simile frase sottintende una perfetta consapevolezza del suo spes-sore di capobastone. Così Cinà si arrampica sugli specchi: «Tengo a chiarire che ho una limitata conoscenza della lingua italiana… quando ho detto al pubblico ministero che ritenevo Bontate troppo importante per me, intendevo dire che avevo appreso dai giornali che il medesimo era un uomo molto potente tra i mafiosi». Tanino è in difficoltà. Gli investigatori, al momento dell’arresto, gli hanno trovato in tasca il numero di telefono di un altro uomo d’onore imparentato con i Ganci, e dieci giorni di pedinamenti sono bastati per vederlo incontrarsi con due pluripregiudicati, uno dei quali per mafia e traffico di droga, ed entrare in contatto – attraverso una parente – con Beppe Dell’Utri, il fratello maggiore di Marcello 11.

Il braccio destro di Berlusconi però sull’onestà di Cinà giura di non aver mai dubitato. Il 1° luglio 1996, durante il suo secondo e ultimo faccia a faccia con i magistrati di Palermo, ribadisce: «Come ho già detto, io non sapevo che Cinà e Mangano fossero uomini d’onore. Anzi – mentre per Mangano qualcosa poi l’ho capito – per quanto riguarda Cinà non sono a tutt’oggi convinto che egli possa essere stato un uomo d’onore. Io sono legato da grande amicizia a Cinà e pertanto non ho difficoltà ad ammettere che l’ho frequentato fino a tempi recentissimi, potrei dire che lo frequento ancor’oggi». Contraddizioni, reticenze, inspiegabili incongruenze. Il mistero Vittorio Mangano resiste per ventidue anni. Poi all’improvviso, negli ultimi mesi del 1996, tutti i frammenti di quella verità difficile, emersi dagli archivi e dalla memoria dei protagonisti di allora, cominciano a combaciare. E il 12 settembre 1996 a inserire nel mosaico il penultimo tassello è un testimone oculare. Un uomo espulso da Cosa nostra perché accusato di aver imbrogliato gli amici fingendo il sequestro di una partita di droga, e finito per anni in esilio a Londra. Si chiama Francesco Di Carlo: dal 1974 al 1978 è stato il capo della potentissima famiglia di Altofonte. Di Carlo, grazie a un titolo nobiliare acquistato a Malta, oltremanica e in Sicilia era conosciuto come “il Baronetto’’. Rispettato e temuto nonostante il suo sgarro, questo boss appassionato di storia, di araldica e di antiquariato, in Inghilterra trafficava in cocaina ed eroina con gli uomini d’onore trapiantati in Canada e in Venezuela 12.

La sua testimonianza sarà per Dell’Utri una specie di mannaia. «Gaetano Cinà, che conosco da più di vent’anni», racconta Di Carlo, «me lo presentò in un bar di via Libertà a Palermo. Eravamo a metà degli anni Settanta. Qualche mese dopo il nostro primo incontro rividi Dell’Utri a Milano. Io al nord ci andavo abbastanza spesso per ragioni di lavoro: avevo una ditta di trasporti. Prima di partire Cinà mi disse che anche lui doveva salire a Milano e così ci mettemmo d’accordo di vederci lì. L’appuntamento era stato fissato in un ufficio in via Larga di proprietà di alcuni nostri amici. Fu in quell’ufficio che incontrai Cinà, Mimmo Teresi e Stefano Bontate. Mi ricordo che quel giorno erano particolarmente eleganti. Io domandai il perché e loro mi risposero che dovevano andare da un grosso industriale milanese amico di Cinà e di Marcello Dell’Utri. E visto che io non avevo niente da fare mi proposero di seguirli». Francesco Di Carlo entra così nella sede dell’Edilnord. In macchina, Bontate gli ha spiegato che chi li attendeva aveva paura dei rapimenti, e che era necessario garantirgli protezione. Ed è proprio di questo che Bontate discuterà con Silvio Berlusconi, presenti anche Cinà, Teresi, Di Carlo e Dell’Utri. Si è tra uomini d’onore: i discorsi sono allusivi, indiretti, ma perfettamente comprensibili.

«Dottore, lei da questo momento può smettere di preoccuparsi. Garantisco io… Perché piuttosto non pensa a investire nella nostra bellissima isola? Da noi c’è tanto da costruire» dice suadente il principe di Villagrazia. «Vorrei, vorrei… Ma sa, già qui al nord ci sono tanti siciliani che non mi lasciano tranquillo…», gli risponde Berlusconi. «La capisco», dice Bontate, «ma adesso è tutto diverso. Lei ha già al suo fianco Marcello Dell’Utri, e io le manderò qualcuno che le eviterà qualsiasi problema con quei siciliani». Berlusconi: «Non so come sdebitarmi, resto a sua disposizione per qualsiasi cosa». Bontate: «Anche noi siamo a sua disposizione. Se c’è un problema basta che ne parli con Dell’Utri…» 13. Chi erano i siciliani che non lasciavano tranquillo Berlusconi? Qual è il retroscena di quella riunione di capimafia negli uffici dell’Edilnord? Per scoprirlo i magistrati di Palermo dovranno attendere solo un mese e mezzo. Il 23 ottobre 1996 la confessione di Salvatore Cucuzza, successore di Vittorio Mangano alla guida della famiglia di Porta Nuova, inserisce nel mosaico l’ultima tessera.

«Dal 1983 al 1990 io e Vittorio siamo stati in carcere insieme», ricorda Cucuzza. «Lui era malato e io lo accudivo. Per questo Mangano mi parlò spesso delle sue vicende milanesi. Vittorio mi disse di essere arrivato a Milano nel 1972-73 al seguito di Gaetano e Nino Grado e di Totuccio Contorno 14. Con loro realizzò diversi “lavoretti’’, tra cui alcune estorsioni, anche ai danni delle proprietà di Berlusconi. Proprio per questo Berlusconi, che intendeva garantirsi da ulteriori at-tentati, lo assunse come fattore ad Arcore tramite Gaetano Cinà». Mangano però continuava a fare il furbo, organizzava truffe e addirittura sequestri di persona che avevano come obiettivo i familiari del suo datore di lavoro. Per questo una volta che il giovane boss lasciò la villa «Berlusconi si rese conto che gli necessitava comunque una garanzia da parte di Cosa nostra». Tramite Cinà venne così intavolata una trattativa direttamente con Bontate e Teresi. «Berlusconi», spiega Cucuzza, «raggiunse con loro un accordo per il versamento di una tangente di 50 milioni l’anno. La stessa cifra che veniva prima versata a Mangano».

Il regista dell’intera operazione è dunque sempre lui, Gaetano Cinà, il fraterno amico di Dell’Utri.

Biografia di un allenatore


Ma chi è Marcello Dell’Utri? Come ha fatto a ottenere la fiducia di Berlusconi guadagnandosi anche l’onore di una futura sepoltura nella cappella funeraria di villa San Martino? E perché un raffinato collezionista di libri antichi come lui è arrivato a stringere accordi con Cosa nostra, a dare del tu a killer e narcotrafficanti, e perfino – come si vedrà – a partecipare ai loro matrimoni e ai loro pranzi di compleanno? Accusato da 17 pentiti e da una miriade d’intercettazioni di essere stato il «canale di collegamento tra Cosa nostra e il mondo economico milanese» 15, Dell’Utri davanti ai magistrati farà il pesce in barile. E all’unisono con Berlusconi di-rà ai giornalisti: «La mia unica colpa è quella di essere nato a Palermo». In realtà, se sul suo passato ci fosse un po’ più di chiarezza, tutto sarebbe più semplice. Infatti, dopo un sodalizio più che trentennale, anche in Fininvest la storia dell’arrivo di Dell’Utri alla corte di re Silvio rimane ancora una sorta di leggenda.

«Si erano conosciuti all’Università a Milano», racconta Bebo Martinotti, componente dello staff storico di Publitalia, «ma poi si erano persi di vista quando Dell’Utri era andato militare. Finita la naia Marcello trovò impiego in Sicilia come direttore e factotum di una banca così piccola che praticamente era l’unico dipendente. Una mattina sentì squillare il telefono mentre stava terminando di alzare la serranda. “Pronto, Marcello? Ti ricordi di me? Sono Silvio Berlusconi. Come va? Senti, sono qui in rada, ho la barca pronta a salpare. Ti va di venire su al nord a lavorare con me?’’. Dell’Utri senza tradire la minima emozione rispose “Sì’’. Tirò giù la saracinesca, si fece portare in taxi fino al porto e s’imbarcò. Da quel giorno non è più sceso dalla barca di Berlusconi». Dell’Utri, interrogato dai magistrati palermitani il 26 giugno 1996, conferma tutto: «Sono andato a Milano nel ’61 per frequentare l’Università statale, sono ritornato a Palermo nel 1970. Ho lavorato presso la Cassa di Risparmio delle Provincie siciliane dapprima a Catania (un anno), poi presso l’agenzia di Belmonte Mezzagno e infine a Palermo; tre anni in tutto, più o meno. Nel ’73 sono tornato a Milano e lì ho iniziato a fare l’assistente del dottor Berlusconi che avevo conosciuto all’università. In quel periodo tra me e lui si era instaurato un rapporto di amicizia e di fiducia. Per questo Berlusconi, in occasione di una sua crociera diretta a Lampedusa, passando da Palermo mi telefonò e mi invitò a lavorare con lui».

In Sicilia, però, c’è chi racconta in un modo diverso questa nuova parabola della folgorazione sulla via di Damasco. «I fratelli Dell’Utri? Come potrei dimenticarli, ho fatto il cronista sportivo per tanti anni e alla Bacigalupo li vedevo spesso» ricorda un giornalista palermitano. «Marcello lavorava in banca, era giovanissimo, ma aveva fatto carriera in fretta. Era diventato subito preposto di agenzia. In pratica era responsabile della filiale dove io avevo il conto. Poi da un giorno all’altro scomparve. E a noi clienti ritirarono i fidi. Giravano brutte voci. Si diceva che avesse fatto affari poco chiari con tipi non raccomandabili». «Seppi poi da suo fratello Giuseppe», prosegue il cronista, «che era andato al nord dove aveva incontrato Berlusconi su un campo di calcio di terza categoria. A quel tempo una squadra del Cavaliere giocava nei campionati minori, ma Berlusconi, che non era tesserato, non poteva stare in panchina. Dell’Utri invece sì, e così Marcello si era ritrovato a fare l’allenatore».

La versione del giornalista sembra plausibile. Proprio Dell’Utri, infatti, in un’intervista del 1990, ha detto più di quanto racconterà ai Pm di Palermo: «Il nome di Silvio me lo aveva fatto un comune amico. Arrivai in Università quando lui era ormai a un passo dalla laurea. Berlusconi subito mi invitò a cena a casa sua e mi fece quasi da tutore: mi passò degli appunti di filosofia del diritto, di diritto penale e delle dispense. In comune scoprimmo la passione per il calcio. Io volevo fare l’allenatore, non l’avvocato». «Nel 1963», prosegue Dell’Utri, «Berlusconi si mise in testa di costituire una squadra e me lo propose. Ci mise dentro suo fratello minore Paolo e una serie di ragazzi del liceo Gonzaga. Lui faceva il presidente, io e Vittorio Zucconi gli allenatori. Insieme riuscimmo a far diventare il Torrescalla Club campione regionale a livello giovanile. Fu un bel periodo. Io studiavo, Silvio già costruiva case. Quando mi laureai me ne andai a Roma a lavorare al centro sportivo del Coni. Ci rimasi quattro anni. Ma con Berlusconi ci sentivamo molto spesso, come minimo ci scambiavamo gli auguri a Natale e a Pasqua» 16.

Marcello Dell’Utri, insomma, proprio come ha ricordato il cronista palermitano, è stato l’antesignano dei Sacchi, dei Capello, dei Tabarez. Restano invece i dubbi sulle sue dimissioni dalla Sicilcassa. La versione del giornalista collima curiosamente con il fonogramma nel quale i carabinieri di Arcore sostengono che la conoscenza tra lui e Mangano avvenne proprio in banca. Per tentare di fare un po’ di chiarezza, i magistrati hanno recuperato negli archivi dell’istituto di credito il fascicolo personale di Dell’Utri. E si sono accorti che anche sul suo passato più antico il manager siciliano è stato reticente. La prima assunzione da parte di Berlusconi risale infatti al 1964: per un anno Dell’Utri riceve lo stipendio dall’Edilnord in qualità di «segretario del presidente della stessa, dott. Silvio Berlusconi». Nel 1966 lascia la Lombardia. Diventa direttore del Centro sportivo Ellis di Roma. Esattamente lo stesso incarico che ricoprirà all’Athletic Club Bacigalupo, poco prima di entrare alla Sicilcassa nel 1970. Un impiego sicuro, ma potenzialmente ad alto rischio: anni e anni d’indagini dimostrano infatti che allora in coda agli sportelli di uomini d’onore ce n’erano a decine.

A quell’epoca anche le filiali della Cassa di Risparmio delle Provincie Siciliane Vittorio Emanuele Orlando trattavano i mafiosi con un occhio di riguardo. Il processo Spatola – la prima importante inchiesta conclusa dal giudice istruttore Giovanni Falcone – proverà come i trafficanti di droga del gruppo Spatola-Inzerillo conducessero le proprie attività, legali e non, grazie alla complice connivenza di alcuni funzionari di questa banca. La Sicilcassa, o Sparcassa, fin dai primi anni Cinquanta aveva peraltro già attirato sospetti di ogni tipo. La Guardia di finanza nel 1963 scrive che Gaspare Cusenza, ex sindaco di Palermo e presidente dell’istituto fino al 1962, «pur non facendone parte in senso letterale, pare non fosse estraneo alle influenze della mafia locale». Il promemoria delle Fiamme Gialle, finito agli atti della commissione Antimafia, susciterà in Parlamento polemiche a non finire. Tanto che nel 1967 l’ufficiale che lo aveva redatto arriverà a smentirne per iscritto il contenuto.

Che il presidente della Sicilcassa frequentasse esponenti dell’Onorata società emerge però chiaramente dalle memo-rie del capomafia Nick Gentile, un “pezzo da 90’’ negli Stati Uniti, consigliere di Al Capone e Lucky Luciano. Nella sua autobiografia, opportunamente censurata prima della pubblicazione, il boss italo-americano racconta la storia dell’appoggio elettorale fornito al senatore fanfaniano Giuseppe La Loggia 17 e descrive anche la propria amicizia con Cusenza. Quello di Gentile è uno spaccato esemplare su mafia e politica in Sicilia nel secondo dopoguerra. Eccolo: «Nel 1951, per le elezioni, mi ero impegnato a dare il mio appoggio a Peppino La Loggia. Tano Di Leo aveva a Roma un informatore e lo venne a sapere. Venne così a Palermo nel mio negozio. Era furioso. Mi disse che non dovevo assolutamente appoggiare La Loggia. Io replicai che mi ero impegnato perché il cognato di La Loggia, quando fui tratto in arresto durante il fascismo, aveva testimoniato a mio favore. Egli era allora podestà di Agrigento. Anche Calogero Volpe era d’accordo con Tano Di Leo contro la parola che avevo dato. Venni chiamato dal senatore Cusenza alla Cassa di Risparmio. Io gli raccontai le mie preoccupazioni per quelle incomprensioni e Cusenza propose di fare una scampagnata tutti quanti assieme per smussare gli angoli. Alla scampagnata dovevamo andare io, Cusenza, Di Leo, La Loggia e Calogero Volpe. Proposi io stesso a Tano Di Leo quella gita ideata da Cusenza, ma egli rifiutò. Informai La Loggia del rifiuto ed egli mi disse: “Zio Cola, dica a Tano, a Volpe e a Cusenza e a tutti gli altri amici che io vengo alla gita per sapere in che cosa ho mancato e, se risulterà che ho mancato, mi scaverete la fossa e mi lascerete là’’. Di fronte a queste parole di umiltà mi sentii incoraggia-to a proseguire nel mio appoggio elettorale. Proprio durante la campagna feci firmare a La Loggia, che era vicepresidente della Regione presieduta da Franco Restivo, lo scioglimento dell’amministrazione socialcomunista di Santa Margherita».

Questa è la Palermo degli anni Cinquanta e Sessanta dove il giovane Marcello Dell’Utri muove i suoi primi passi. Lui e la sua famiglia, proprietaria di una farmacia nel quartiere Matteotti (tradizionale roccaforte delle destre), restano però ai margini dei giri che contano. Dell’Utri riesce a mettere un piede in paradiso solo grazie agli studi e allo sport: prima trascorrendo due anni in una esclusiva scuola media di Bronte, il “Real Collegio Capizzi’’, poi frequentando l’istituto dei salesiani Don Bosco, infine creando con il fratello Beppe (oggi rappresentante di prodotti farmaceutici) la Bacigalupo. Una squadra di calcio che nel Golfo degli aranci tutti ricordano benissimo. Sia perché in campo sono stati visti sgambettare futuri grossi nomi del football come l’allenatore Zdenek Zeman, sia perché ogni estate organizzava il torneo internazionale “Città di Palermo’’. Alla Bacigalupo, Beppe e Marcello Dell’Utri mandavano avanti la scuola calcio. Il vivaio era ampio: 150 giocatori in erba a volte con cognomi importanti, come i figli di Restivo e del conte Arturo Cassina 18, a volte destinati a far carriera nella vita come Pippo Provenzano, l’attuale presidente della Regione Sicilia prosciolto in istruttoria dall’accusa di aver riciclato proventi del narcotraffico per conto del suo omonimo Bernardo Provenzano.

Tutte amicizie che Dell’Utri continuerà a coltivare negli anni, insieme a frequentazioni ben più scabrose. Buona parte di queste conoscenze le farà a Milano dove, prima di insediarsi a villa San Martino, ha affittato un appartamentino in via degli Ottoboni, a due passi da piazza Duomo. Il giovane Dell’Utri prende lì la sua residenza anche se non di rado pernot-ta a casa di Berlusconi, in viale San Gimignano 12. Ufficialmente riassunto nel 1973, dopo la parentesi romana e palermitana, Dell’Utri è accanto al costruttore di Milano 2 senza limiti di orario. La sera va spesso a cena al ristorante “Il Viceré’’, che i carabinieri considerano un abituale punto di ritrovo di mafiosi trapiantati al nord. Nel locale, gestito dal pregiudicato Domenico Brucia, si danno appuntamento anche i siciliani legati al sottobosco democristiano dell’epoca e uomini del clan di Francis Turatello.

Berlusconi, alle prese con la costruzione della città-satellite Milano 2, è già miliardario. Nel 1971 ha acquistato il suo primo elicottero, ma non ha finito di volare con la fantasia. Dentro di sé conserva ancora tutta quella voglia di sfondare che quindici anni prima gli aveva permesso di studiare e lavorare contemporaneamente, arrivando a laurearsi con 110 e lode. Già allora, per chi lo conosceva, la sua sembrava la parabola del self-made man all’italiana, cominciata facendo il fotografo di matrimoni e il venditore di aspirapolvere porta a porta, per poi diventare impiegato alla Immobiliare Costruzioni, e infine costruttore in proprio. «Io farò una città dove c’è tutto, dalla clinica dove si nasce al cimitero», aveva confidato nel 1961 a Dell’Utri. E subito era passato dalle parole ai fatti. Con i capitali procurati dal padre Luigi, direttore generale della Banca Rasini, aveva costruito prima un condominio in via Alciati, poi un intero quartiere a Brugherio.

Nel 1968 Silvio Berlusconi aveva comprato per 3 miliardi 712.000 metri quadrati di terreno a Segrate, dove avrebbe costruito Milano 2. La zona era edificabile solo in parte, e oltre al problema delle licenze edilizie bisognava far sgomberare cinque palazzi che gli occupanti non volevano abbandonare. A convincerli alla resa saranno anche una serie di minacce e attentati 19. A distanza di tanti anni è ormai impossibile stabilire chi e perché abbia ordinato, organizzato e messo a segno quei raid. Ma un fatto è certo: allora a Milano il mondo dell’edilizia era un far west selvaggio dove gli uomini di Cosa nostra la facevano da padroni. Il mercato nero delle braccia, come denunciavano i sindacati, era interamente cosa loro. Subappalti miliardari venivano affidati alle famiglie di mafia Guzzardi, Polizzotto, Ciulla e Cangialosi da grandi imprese impegnate ne-gli scavi della metropolitana milanese come la Codelfa e la Boccardo & Belloni. E a Segrate e a Trezzano sul Naviglio i quartieri residenziali di Milano San Felice e Zingonia vedevano l’Onorata società protagonista delle lottizzazioni.

La carica dei siciliani


Il 30 marzo 1994 Gaspare Mutolo racconta: «A Milano già negli anni Sessanta risiedevano stabilmente importanti uomini d’onore di Cosa nostra che io ho personalmente conosciuti. Ricordo in particolare: Simone Filippone e Salvatore Di Maio della famiglia della Noce; Antonino Grado della famiglia di Santa Maria del Gesù; Giuseppe Bono, Salvatore E-nea (detto Robertino), Ugo Martello e Gaetano Fidanzati del-la famiglia di Bolognetta; Alfredo Bono, fratello di Giuseppe, e Gino Martello della famiglia di San Giuseppe Jato; Gaetano Carollo, Giuseppe Ciulla e Franco Guzzardi della famiglia di Resuttana. Allora tutti ricavavano la maggior parte dei loro guadagni non dal traffico di droga, ma dai sequestri di persona, dalle rapine e, in parte, dal contrabbando di tabacchi». Il rosario di nomi snocciolato da Mutolo è solo una piccola goccia nel mare magnum degli uomini di panza che a quell’epoca si erano trasferiti all’ombra della Madonnina. Mischiati tra i 250.000 immigranti siciliani sbarcati in provincia di Milano nel secondo dopoguerra erano infatti arrivati mafiosi a centinaia.

A partire dal 1961 e fino al 1972, la legge sul soggiorno obbligato ne aveva mandati in Lombardia ben 372. Tutti o quasi, dopo qualche mese, venivano raggiunti da familiari e a-mici. La colonia si gonfiava, si diramava, si riproduceva. Al nord, del resto, l’Onorata società godeva di una libertà pressoché assoluta. Le regole non esistevano, o quasi: a Milano non c’era né una decina né una famiglia cui rendere conto. Gaetano Badalamenti, che con Bontate e Luciano Liggio faceva allora parte del triumvirato al vertice di Cosa nostra, aveva inutilmente tentato di crearne una. Quando era stato mandato in soggiorno obbligato prima a Macherio, ad appena 10 chilometri da Arcore, e poi a Sassuolo, nel modenese, aveva cercato di prendere in mano le redini della situazione ma, come spiegherà Mutolo, «Giuseppe Ciulla e Pippo Bono, allora già molto potenti, si erano opposti perché preferivano agire liberamente».

A Milano, insomma, se si doveva rapire qualcuno, ognuno agiva per sé, senza informare i boss dell’isola. Il legame più forte restava quello con i corleonesi di Liggio, ma l’autonomia dalle decisioni siciliane era pressoché totale 20. Anche e soprattutto dal punto di vista economico. Il ricavato delle attività illecite veniva poi reinvestito nell’edilizia «in complessi di ville», anche se c’era chi, come «i fratelli Bono, Ugo Martello e Salvatore Enea, operava a un livello molto più alto e importante dal punto di vista imprenditoriale». Martello ed Enea – come dimostreranno le indagini della Criminalpol – trattavano da pari a pari con imprenditori dal fatturato miliardario. Racconta ancora Gaspare Mutolo: «Il pericolo dei sequestri, allora molto frequenti, portava gli industriali ad entrare in contatto con gli uomini d’onore, anzi a desiderarne la protezione. Chiaramente, una volta entrato in contatto con Cosa nostra l’imprenditore non poteva e non può più allontanarsene e deve consentire alle varie richieste che possono venire dagli uomini d’onore con cui è in contatto. Tra queste, indubbiamente, c’è anche il reimpiego di capitali d’illecita provenienza».

In genere era l’ippodromo di San Siro il luogo dove i mafiosi riuscivano ad agganciare i Vip. «Ci andavano molti uomini d’onore», conferma Mutolo, «mi ricordo di averci visto spesso Alfredo Bono, Robertino Enea e Vittorio Mangano… San Siro era frequentato da persone che possedevano scuderie di cavalli da corsa e da altri facoltosi appassionati». Tra gli habitué dell’ippodromo di San Siro c’erano anche Dell’Utri e Berlusconi? Mutolo ne è convinto. Pippo Bono, Gaetano Fidanzati e Vittorio Mangano gli spiegarono infatti che dopo una serie di tentati sequestri e di attentati, anche Berlusconi era sceso a patti con Cosa nostra. A convincerlo a trattare – secondo Mutolo – furono i consigli di un altro ex venditore di aspirapolvere porta a porta, l’importatore di impianti Tv Luigi Monti: un uomo che negli anni Ottanta verrà inutilmente indicato da Fbi, pentiti e magistrati milanesi come lo snodo fondamentale del riciclaggio dei soldi della Pizza Connection.

Monti – Joe per gli amici – era cresciuto alla scuola di Joe Adonis, il mafioso italo-americano fondatore del sindacato del crimine negli Stati Uniti. Adonis era arrivato a Milano nel 1958 e si era stabilito in un attico di via Albricci da dove controllava un’immobiliare, la Milbenton, e gestiva occultamente la catena di supermercati Stella. Suoi guardaspalle erano i fratelli Bono, mentre il suo fiscalista di fiducia era Michele Sindona. A questa compagnia – secondo i collaboratori di giustizia – si avvicinano anche Berlusconi e Dell’Utri. Ricorderà ancora Mutolo: «Monti conosceva Berlusconi e Dell’Utri in quanto sia il primo che il secondo erano appassionati – o comunque proprietari – di cavalli. Monti da quando era entrato in contatto con Pippo Bono non era stato più disturbato. Per stare tranquillo non ebbe più bisogno di scorte nonostante fosse una persona molto ricca. Anche questo convinse Berlusconi, come altri industriali, della convenienza di entrare in contatto con Cosa nostra proprio per evitare il rischio di sequestri di persona. Inoltre l’uomo d’onore era considerato un portatore di capitali che non dovevano passare attraverso le rigide regole bancarie»

Al di là delle dichiarazioni dei pentiti, sembra proprio che Berlusconi e Monti si conoscessero davvero. Dell’Utri ha sicuramente qualche legame con il socio di Joe, il barese Antonio Virgilio, un anziano proprietario di grandi alberghi abituato a fare affari con multimiliardari come il vecchio re milanese del mattone Giuseppe Cabassi, e Guido Angelo Terruzzi, a lungo ritenuto “l’uomo più liquido d’Italia’’. Davanti ai magistrati di Palermo, Dell’Utri tenterà di negare i rapporti con Virgilio: ma da una sua agendina, sequestrata nel 1983 21, salta fuori il numero di telefono dell’imprenditore pugliese. «Forse un Virgilio lo conoscevo», si giustificherà Dell’Utri. «Anzi, adesso facendo mente locale avrò avuto con lui un unico contatto telefonico, poiché io in quel periodo mi occupavo anche di transazioni immobiliari e allora Virgilio era un importante imprenditore immobiliare. Però non l’ho mai conosciuto personalmente, in quanto l’operazione non andò mai in porto».

Certo è che sia Monti sia Virgilio erano correntisti della Banca Rasini, diretta fino a metà degli anni Settanta dal padre di Berlusconi. Oltre a loro, tra i clienti del piccolo istituto di credito c’era anche il boss Robertino Enea. Un caso? Gli atti giudiziari della Pizza Connection non permettono di stabilirlo. A Luigi Berlusconi, che fin dai primi investimenti si è anche occupato della contabilità delle imprese del figlio, è succeduto alla direzione della Rasini Antonio Vecchione, il quale risulterà – lui sì – coinvolto nelle inchieste sulla mafia dei colletti bianchi.

Sulla Banca Rasini si concentreranno invece accuse precise. Accuse formulate anche da chi i segreti finanziari di Cosa nostra li conosceva dall’interno. «“Quali sono le banche usate dalla mafia?’’, chiesi a Sindona. Lui prese tempo. “È una domanda pericolosa’’ rifletté. Mi strinsi nelle spalle: lui sorrise e senza più esitare disse: “In Sicilia il Banco di Sicilia, a volte. A Milano una piccola banca di Piazza dei Mercanti’’». Nel 1985 il giornalista del “New York Times’’ Nick Tosches intervista per quattro mesi il detenuto Michele Sindona 22. Il finanziere di Patti, ovviamente, si difende e accusa. Accusa anche la Banca Rasini, «la piccola banca di Piazza dei Mercanti» dove per anni Luigi Berlusconi è stato direttore generale. Parole che – pur collocate in un quadro di dichiarazioni spesso menzognere e ricattatorie – suonano come un’oscura profezia. La Banca Rasini, infatti, è alla base delle fortune di Silvio Berlusconi.

Nella biografia Le gesta del Cavaliere il giornalista Paolo Madron, che ha intervistato «150 persone che in diversi momenti hanno lavorato» per Berlusconi, spiega: «Le città giardino di Berlusconi sono servite… per far rientrare le valigie di soldi a suo tempo depositate nella vicina Svizzera. Alla fine degli anni Sessanta le vie che portano al paese degli gnomi sono intasate di spalloni che vanno a mettere al sicuro il denaro della ricca borghesia terrorizzata dai sequestri (ci provano anche col padre di Berlusconi)… Il Cavaliere va da Rasini e gli chiede di appoggiarlo su quei suoi amici, clienti o meno della banca, che hanno portato fuori tanti soldi… Berlusconi non ha mai voluto rivelare i nomi di chi lo ha finanziato… Tra di loro ci sono sicuramente gli Andreani, rappresentanti in Italia dell’inglese Ice e costruttori di barche in proprio. Il conte Bonzi, che ha investito parte dei soldi guadagnati dalla vendita dei terreni di Segrate. In tempi diversi tutti sono stati liquidati da Berlusconi con piena soddisfazione» 23. Quella di Madron è una ricostruzione importante. La sua biografia, essendo autorizzata, può essere ritenuta la sola versione semi-ufficiale fornita da Berlusconi per giustificare la provenienza dei misteriosi capitali che sono all’origine della propria fortuna.

Nel libro Madron parla anche esplicitamente di un tentativo di sequestro di cui sarebbe rimasto vittima il padre di Silvio, Luigi Berlusconi. Quel sequestro è solo il primo di una serie di rapimenti progettati ai danni di Silvio Berlusconi o del suo entourage. Su due di questi – come vedremo – si dilungherà lo stesso Dell’Utri nei suoi interrogatori palermitani. Il terzo verrà invece raccontato da uomini d’onore oggi pentiti, i quali avevano addirittura partecipato alle ricognizioni e ai preparativi. Nei primi anni Settanta, in conclusione, Berlusconi era davvero nel mirino di Cosa nostra. E nella grande villa di Arcore si viveva a tu per tu con la paura.

Peter Gomez e Leo Sisti - Il Fatto Quotidiano - 19 novembre 2012


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